ROLANDO E GUARESCHI SALVANO “IL SEME DELLA FEDE”

2020-03-24_15h47_48Il 22 luglio 1956 il “Candido”, il settimanale satirico diretto da Giovannino Guareschi, pubblicò due pagine dedicate ai sacerdoti emiliani uccisi dai partigiani. Tra loro anche il nostro Beato Rolando Rivi Martire. Queste pagine hanno ora ispirato a Gianni Varani, appassionato conoscitore dell’autore di Peppone e don Camillo, questa riflessione. È un piccolo viaggio nella testimonianza di due cristiani che hanno vissuto prove estreme, conservando il seme prezioso della fede. Un viaggio, particolarmente attuale in questi giorni, che doniamo ai nostri amici.

Durante la guerra, in un campo di prigionia, un uomo – un emiliano per la precisione – fece un’affermazione clamorosamente falsa. Disse di sé una cosa impossibile a realizzarsi. Voi direte: uno solo? Migliaia, milioni d’uomini hanno detto corbellerie e menzogne. Il nostro però sostenne che quand’era nel campo di prigionia tedesca, tra il 1943 e il 1945, strinse i denti e affermò: “non muoio neanche se mi ammazzano”. È un’affermazione piuttosto singolare e audace. Non molti l’hanno arrischiata nei lager. Forse solo lui. E nessuno di noi – pur desiderando dirlo oggi, a fronte della pandemia che ci assale – azzarderebbe parole così apodittiche. Per questo val la pena scriverne.

Ci sono quattro possibili spiegazioni per quella palese insensatezza. Quell’uomo faceva dell’umorismo, usava essere scaramantico. Oppure, aveva un temperamento fuori dal comune, quasi fosse un Capaneo dantesco, o un Farinata che avesse “l’inferno in gran dispitto”. È però possibile che fosse semplicemente pazzo. Altrimenti – quarta ipotesi – si può pensare che avesse una fede straordinaria o avesse scovato un segreto altrettanto eccezionale, che è poi la stessa cosa.
Ora, per chi conosca questo personaggio, in realtà almeno tre di queste spiegazioni sono plausibili e fondate. E per qualche suo nemico forse tutte quattro assieme.
Quell’emiliano così particolare era Giovannino Guareschi. Per mettere in chiaro, senza dubbi, cosa aveva affermato e pensato, scrisse, nero su bianco, quella “certezza” così radicale, nella premessa del Diario Clandestino, la sua narrazione degli anni terribili trascorsi nei lager come milioni di altri esseri umani. Ed è fin da quel Diario che, in realtà, quell’emiliano testardo ci svelò e condivise il suo segreto. Era certamente un umorista e una grande personalità. Ma soprattutto, di fronte al male più nero e brutale, ci raccontò – nel suo stile inconfondibile – com’era possibile non morire. Ed è una scoperta che, per molti che l’hanno detestato e che detestano la fede cristiana, è assimilabile alla follia. Una santa follia.
Lasciamo perciò che sia lui a parlare.

“… io, anche in prigionia, conservai la mia testardaggine di emiliano della Bassa: e così strinsi i denti e dissi: ‘Non muoio neanche se mi ammazzano!”. E non morii. Probabilmente non morii perché non mi ammazzarono: il fatto è che non morii…” (*)
Basterebbe questo per cogliere tanto l’ironia quanto la determinazione dell’uomo Guareschi. In realtà, egli usò tutte le sue armi umane per sostenere i compagni di prigionia, umorismo incluso, per combattere la disperazione, per non farsi travolgere dalla nostalgia di casa.

Fu però certamente in quel frangente drammatico che maturò in lui ciò che fissò in una lettera particolare, indirizzata, dal lager di Beniaminovo, “alla signora Germania”.
“Signora Germania, tu ti inquieti con me, ma è inutile. Perché il giorno in cui, presa dall’ira, farai baccano con qualcuna delle tue mille macchine e mi distenderai sulla terra, vedrai che dal mio corpo immobile si alzerà un altro me stesso, più bello del primo. E non potrai mettergli un piastrino al collo perché volerà via, oltre il reticolato, e chi s’è visto s’è visto. L’uomo è fatto così, signora Germania: di fuori è una faccenda molto facile da comandare, ma dentro ce n’è un altro e lo comanda soltanto il Padre Eterno”. (*)
Un qualsiasi fanatico armato, nazista o altro, che avesse letto questa lettera, avrebbe sogghignato, attribuendola a un povero illuso. Sta di fatto che Guareschi tornò in Italia con una fede risoluta e pienamente umana. Disse che non l’avevano sconfitto “perché, nonostante tutto e tutti, io sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno”. Ecco la sua “immortalità”: la fede. Una fede umana e la conseguente certezza in un’eternità dove le cose saranno rimesse al posto giusto.

Mise perciò se stesso al servizio della ricostruzione dell’Italia e della lotta contro le ideologie. Uomini così, come Guareschi, finiscono sempre per contestare le ingiustizie e sposare la causa delle vittime. Le sue battaglie, le sue creazioni letterarie – don Camillo e Peppone – hanno segnato la storia dell’Italia.
Fu tra i pochi a raccontare, senza mezzi termini, cosa accadeva in Emilia, nel sanguinoso triangolo dove furono trucidate migliaia di persone, tra cui innumerevoli sacerdoti, alla fine della guerra.
In un numero di Candido, la sua celebre rivista, nel luglio del 1956, pubblicò due pagine con foto e racconti degli omicidi di 27 sacerdoti. Nelle foto degli assassinati, c’era anche Rolandino Rivi, oggi Beato, allora seminarista di 14 anni, trucidato “in odium fidei”, per ciò che rappresentava con quell’abito. La sua storia è tornata alla luce in anni recenti, perché il tempo – avrebbe detto Guareschi e con lui don Camillo, il suo amato pretone – è galantuomo. Rolandino non aveva paura. Gli sconsigliavano di girare con la tonaca da seminarista. Il pericolo era noto e reale, ma lui custodiva lo stesso segreto di Guareschi. Aveva una fede ardente. Credeva nella presenza di un Altro nella vita e quindi nell’eternità. “Io sono di Gesù”, ripeteva.
Il tempo ha dimostrato che Guareschi aveva ragione a dire che non sarebbe morto. I suoi detrattori avevano sentenziato che lo scrittore non sarebbe mai nato. E sono stati smentiti. Ancora oggi Guareschi – a mezzo secolo dalla morte – è uno degli autori italiani più tradotti al mondo. Ma questa sarebbe solo un’eternità laica, anche se desiderabile e meritata. Anche Rolandino non è morto. L’avevano giustiziato e sepolto per cancellarne le tracce. E ora ha amici ovunque e lancia indizi miracolosi.
Abbiamo bisogno di amici di tal fatta per affrontare la paura del nostro mondo. E ce ne sono, anche nella terribile congiuntura che s’è abbattuta sull’Italia. Basta non distrarsi e ascoltare le storie che circolano in queste giornate.

Abbiamo necessità di un’eternità che non sia una chimera, un sogno illusorio, per reggere la prova e sapere che riabbracceremo i cari perduti. Non di supereroi, ma di credenti umani ha bisogno questa povera terra ferita. Non è gente che si ritira dalla battaglia, quella che ha la tempra dei Guareschi o di Rivi, ma è gente che sa indicare cosa c’è da fare quando arriva l’uragano.
Lasciamo dunque, per finire, che sia ancora Guareschi a parlare attraverso le sue creature.
“Don Camillo spalancò le braccia (rivolto al crocifisso): “Signore, cos’è questo vento di pazzia? Non è forse che il cerchio sta per chiudersi e il mondo corre verso la sua rapida autodistruzione?”.
(Il crocifisso): “Don Camillo, perché tanto pessimismo? Allora il mio sacrificio sarebbe stato inutile? La mia missione fra gli uomini sarebbe dunque fallita perché la malvagità degli uomini è più forte della bontà di Dio”.

“No, Signore. Io intendevo soltanto dire che oggi la gente crede soltanto in ciò che vede e tocca. Ma esistono cose essenziali che non si vedono e non si toccano: amore, bontà, pietà, onestà, pudore, speranza. E fede. Cose senza le quali non si può vivere. Questa è l’autodistruzione di cui parlavo. L’uomo, mi pare, sta distruggendo tutto il suo patrimonio spirituale. L’unica vera ricchezza che in migliaia di secoli aveva accumulato. Un giorno non lontano si troverà come il bruto delle caverne. Le caverne saranno alti grattacieli pieni di macchine meravigliose, ma lo spirito dell’uomo sarà quello del bruto delle caverne […] Signore, se è questo ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi?”.

Il Cristo sorrise: “Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede e mantenerla intatta”. (**)

Gianni Varani
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(*) Giovannino Guareschi, Diario Clandestino, Rizzoli
(**) Giovannino Guareschi, Don Camillo e don Chichì, BUR